Sono precisamente 193 le fotografie di Mario Giacomelli presenti in questa mostra, allestita in occasione dei festeggiamenti per i vent'anni di Palazzo Ducale a Genova. E lo stampatore è lo stesso Giacomelli. E non hanno tiratura, se non alcune con precise limitazioni. Già questo metterebbe fortemente in crisi Walter Benjamin, il quale si soffermò proprio sul cambiamento di paradigma culturale con l’entrata della fotografia nella storia dell’arte, che sostituiva l’autenticità del pezzo unico, priorità e forza della pittura, con la riproducibilità all’infinito della tecnica. Di più: la fotografia riduceva le distanze spaziali e temporali. Non necessitava per essere fruita della presenza nello stesso luogo di opera d’arte e spettatore. La visione della fotografia poteva avvenire nello stesso momento nei posti più disparati e davanti a milioni di differenti spettatori. Tutto ciò, dunque, che era variabile fondamentale di un’opera d’arte -quegli elementi scontati che sembravano essenziali perché l’opera fosse per l’appunto d’arte- scompariva. Premesse del genere determinarono una conclusione quasi sillogistica: la fotografia era un’ancella della pittura, era al suo servizio, per dirla con Baudelaire. E così fu per molto tempo. Adesso è noto non soltanto che non sono questi i requisiti fondamentali per entrare di diritto nell’artistico –unicità e autenticità- ma per di più che anche la fotografia li possiede. Tutti gli stampatori di professione sanno che non esiste una fotografia a stampa chimica esattamente identica a un’altra. Nel caso di Giacomelli c’è molto di più da dire. Questo fotografo universale, nato a Senigallia nel 1925 e lì morto nel 2000, stampava le sue fotografie con un procedimento, che oggi si chiamerebbe di postproduzione, che le rendeva davvero delle pitture, per di più pezzi unici che firmava in calce o sul retro della foto. Esattamente come si fosse trattato di quadri. Nello sviluppo prediligeva dar maggior risalto ai carichi di nero che rendevano alla foto quel quid in più, visionario e onirico, pur nonostante la matericità dei soggetti. Un fotografo universale perché era perfettamente a suo agio con ogni forma di fotografia da quella reportagistica a quella naturalistica, da quella surrealistica a quella concettuale, da quella neorealistica a quella pittorialistica. Non c’era un genere che prediligeva, tanto che il figlio in un’intervista impossibile gli fa dire:
«Cosa vuol dire "genere", io ho sempre fotografato me stesso, non la mia forma, ma le mie idee, i miei pensieri. Io faccio reportage, ma d’una realtà aggiunta alla realtà di tutti; io taglio, maschero, sbaglio per ottenere quello che voglio, io fotografo il corpo rigonfio di veleni, amputato sfruttato e abbandonato dall'uomo, fatto di terra e di mare e della stessa materia del nostro dolore. Non credo sia importante il genere ma avere qualcosa da dire» (Corsivo dell’autore, ndr)
(Simone Giacomelli intervistato da Libero Api).
Nei quasi cinquecento metri quadri della sala principale del sottoporticato di Palazzo Ducale si possono ammirare ben sei portfolio -Tibet, Scanno, Il mare dei miei racconti, Spoon River, Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, Io non ho mani che mi accarezzino il volto. Seguono tre sale, in cui sono presenti altre celebri serie del fotografo marchigiano: I gabbiani, ad esempio, oppure Colore o Il pittore Bastari o La buona terra. E così come abbondano gli oggetti soggetti, abbondano anche i temi trattati, sociali ed esistenziali. Giacomelli non voleva fare della fotografia una mimesi del reale; voleva andare al di là per cogliere il quid, l’essenza, la forma originaria e pura. Ogni scatto era uno strappo al tempo per recuperare l’eternità nascosta nell’ente, coglibile soltanto dall’occhio magico della macchina fotografica. Il bianco e il nero riescono a dire tutto, in una scala di possibilità cromatiche che sembrano visibili all’occhio e al sentire dell’anima che traduce la presenza e l’assenza con significati e segni che rimandano all’essenziale. E Giacomelli lo sapeva, ecco perché non ha dubitato sulla possibilità di aprire la gamma del percettibile usando soltanto il bianco e il nero. Voleva dipingere e usava la macchina fotografica come pennello; voleva poetare e usava la macchina fotografica come penna; voleva scoprire la struttura intima dell’ente e usava la macchina fotografica come occhio magico. Giacomelli era un artista completo, a tal punto che lui stesso si occupava dello sviluppo della fotografia, che era parte integrante della fotografia stessa, elemento fondamentale e decisivo per l’artisticità della foto. Con Giacomelli la postproduzione acquista la dignità di un lavoro decisivo e il riconoscimento dell’imprescindibilità del legame tra buona foto e buona stampa.
La mostra è curata nei minimi particolari attraverso una divisione nello spazio delle opere che permette una fruizione ordinata, ma non didascalica. Il percorso fa da catena per evitare di perdersi in quel mare di emozioni, anche se a conclusione gira un po’ la testa. Forse è la commozione di aver visto il senso del lavoro di una vita o forse è soltanto la meraviglia di ritrovarsi a tu per tu con un mondo vero, filtrato dalle mani operose di un artista che ha fatto delle fotografie un genere nuovo e antico insieme. Ne ha fatto opere d’arte autentiche, originali, uniche. E se ancora ci fosse qualche dubbio quando andrete alla mostra soffermatevi sul portofolio Io non ho mani che mi accarezzino il volto e in particolar modo osservate il girotondo dei pretini ripresi dall’alto. Non si colorano immediatamente della vivacità cromatica dei danzatori di Matisse (La danse, 1909)? E non ritorna lo stesso stacco cromatico tra il nero degli abiti talari e il bianco intorno? E Nel mare dei miei racconti la riva, la battigia che lambisce il mare, gli ombrelloni, la spiaggia, quegli uomini tra le barche che appaiono come fantasmi, non sembrano nati dal pennello di un visionario che sa restituire la tragica bellezza della materia attraversata dal tempo? E ne La presa di coscienza sulla natura, in quegli olivi, in quei paesaggi dall’alto, in quei tronchi, in quei campi, in quelle case, in quei disegni informi che l’occhio cerca di formare, in quelle forme terrestri, non sembra tutto abbandonare il proprio essere per essere altro? Gli alberi sono altro e i campi sono altro e le cose significano altro per dire il mondo e la solitudine del mondo e la crudeltà del mondo e il silenzio del mondo. Giacomelli costruisce la luce, la verità, la realtà, l’intimità dosando il bianco e il nero, dosando lo scatto bressoniano e la costruzione dell’immagine, dosando nitidezza e mosso. E tutto parla e dice di sé e di noi che osserviamo. «È bello sentire il cuore guardando delle foto» scrive Casoli nell’introduzione. È bello sentire guardando. Cosa rara di questi tempi.
Non perdete questa mostra. Sarebbe un peccato mortale.
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PALAZZO DUCALE DI GENOVA - SOTTOPORTICATO
Mario Giacomelli. Un maestro della fotografia del Novecento
A cura di Sergio Casoli con Ettore Buganza
20 maggio - 19 agosto 2012
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Didascalie delle fotografie qui presentate:
66) Mario Giacomelli - Il mare © courtesy Archivio Mario Giacomelli Senigallia
115) Mario Giacomelli - Scanno - Bambino a Scanno 1957 © courtesy Archivio Mario Giacomelli Senigallia
177) Mario Giacomelli - Io non ho mani che mi accarezzino il volto © courtesy Archivio Mario Giacomelli Senigallia
232) Mario Giacomelli -Spoon River -cm12x18_Spoon River, 1995-99 - © courtesy Archivio Mario Giacomelli - Sassoferrato